LA CITTADINANZA EUROPEA: DIRITTI E DOVERI
I DIRITTI FONDAMENTALI E LA CARTA EUROPEA DEI DIRITTI
PROSSIME ADESIONI: QUALI DIRITTI?
LA CITTADINANZA EUROPEA: DIRITTI E DOVERI
Il Trattato di Maastricht nacque con l’obiettivo di sostituire alla Comunità europea l’Unione europea, vale a dire un’istituzione sovranazionale non puramente economica, ma che tendesse verso una reale integrazione fra i popoli del continente. In quest’ottica si inserì la previsione dell’introduzione di una cittadinanza europea riconosciuta a tutti i cittadini degli Stati membri dal 1 novembre 1993.
L’attribuzione della cittadinanza europea deriva dal possesso della cittadinanza di uno Stato membro. Sono quindi cittadini europei anche coloro che possiedono già una doppia cittadinanza, purché una delle due sia di un Paese europeo. La cittadinanza europea non si sostituisce a quella nazionale, ma si affianca ad essa. Tuttavia, questo nuovo attributo per i cittadini dell’UE non ha intaccato la competenza degli Stati nazionali nel definire i criteri per conferire la cittadinanza. Unica limitazione è che tali criteri siano compatibili con la normativa dell’Unione.
La cittadinanza europea consente ai cittadini europei residenti in un altro Stato membro il diritto di votare alle elezioni comunali ed europee per i collegi del proprio Paese e garantisce un diritto di assistenza da parte delle rappresentanze estere degli altri Paesi.
Da quanto detto finora, emergono dei tratti particolari che contraddistinguono la cittadinanza nazionale da quella europea. Quest’ultima, infatti, è legata a un’istituzione, l’Unione europea, che non può essere definita uno Stato poiché non possiede alcuni dei requisiti fondamentali di tale condizione, quali ad esempio l’indipendenza da altri soggetti. In secondo luogo, i diritti garantiti dalla cittadinanza europea non sono compensati da doveri che l’individuo ha nei confronti dell’Unione. C’è, infatti, solamente un apporto contenuto del cittadino alla vita politica dell’UE. Per fare un esempio, il servizio di leva dell’Unione non è previsto, come neppure un sistema pensionistico generalizzato o un sistema di istruzione comune per i Paesi membri.
Ciononostante, l’idea di riconoscere uno status privilegiato ai cittadini europei non è nuova. I vertici europei del 1972 e del 1974 misero in moto questo processo, con la proposta – mai realizzata – di un passaporto comune europeo. Crearono anche un gruppo di lavoro, che presentò il Rapporto Tindemans, dal nome del Primo Ministro belga a capo del progetto, primo documento in cui si accennava a una “Europa dei cittadini”. Solo con il rafforzarsi dell’integrazione europea e con la firma del Trattato di Maastricht si è arrivati all’introduzione dello status di cittadino europeo.
Le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona hanno fatto poi confluire la disciplina sulla cittadinanza negli articoli 20-25 del TFUE. Questi elencano i diritti, i doveri e la protezione garantita ai cittadini dell’UE.
A sottolineare l’importanza che riveste la cittadinanza per la creazione di una vera società europea, è previsto il programma “l’Europa per i cittadini”, tramite il quale vengono incoraggiati tutti i cittadini, le autorità locali, i sindacati, le municipalità e le organizzazioni a svolgere un ruolo attivo nello sviluppo dell'Unione. Il programma finanzia iniziative riguardanti la partecipazione e la democrazia, il dialogo interculturale, l'occupazione, la coesione sociale, lo sviluppo sostenibile e l'impatto delle politiche europee sulla società. Questo programma, per il periodo 2014-2020, mira a promuovere i valori comuni dell’Europa, a favorire la nascita nei cittadini dei Paesi membri di un comune sentimento di appartenenza e a tradurre queste idee in realtà. L’accento verrà posto su due obiettivi principali: sensibilizzare alla memoria, alla storia e ai valori comuni e alle finalità dell’Unione, nonché alle finalità dell’Unione, vale a dire promuovere la pace, i valori dell’Unione e il benessere dei suoi popoli stimolando il dibattito, la riflessione e lo sviluppo di reti; incoraggiare la partecipazione democratica e civica dei cittadini dell’UE, permettendo loro di comprendere meglio il funzionamento dell’Unione e creando le condizioni adatte all’impegno sociale e interculturale e al volontariato.
Programmi di questo tipo vengono implementati dalla Commissione, responsabile della gestione, dalle Agenzie esecutive, che gestiranno la messa in opera, dagli Stati membri e dai Punti di Contatto Nazionali (PCN), strutture informative create appositamente per diffondere tutte le informazioni necessarie in ogni Stato membro. In Italia il PCN operante presso il Dipartimento delle politiche europee della Presidenza del Consiglio dei Ministri offre un aiuto ai cittadini per comprendere il sistema delle norme comunitarie e i vantaggi che da questo si possono trarre.
DIRITTI E DOVERI
I diritti
Nel TFUE viene precisato che i cittadini europei godono dei diritti e dei doveri previsti dai Trattati, operando perciò un rinvio alle disposizioni più specifiche scritte all’interno dei vecchi trattati CEE e UE. Chiaramente, questi diritti possono essere invocati solo nella misura in cui il cittadino si trovi di fronte a dei settori di competenza degli organi comunitari, essendo inapplicabili nei casi puramente interni, cioè riconducibili al solo diritto nazionale. Nella pratica, le principali attribuzioni derivanti dal possesso della cittadinanza comprendono la libertà di movimento, cioè il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio dell’Unione. La novità principale introdotta in questo ambito, riguarda il fatto che questo beneficio viene riconosciuto indipendentemente dallo svolgimento di una specifica attività economica, superando il meccanismo che era stato adottato fino al Trattato di Maastricht. Vi è poi diritto di votare e di essere votati se residenti in uno Stato membro diverso da quello della propria nazionalità. Peraltro, è previsto, con decisione unanime del Consiglio e parere favorevole del Parlamento, che si possano applicare particolari deroghe a questo diritto. Tra i diritti garantiti vi è anche la protezione diplomatica e consolare da parte delle strutture di uno Stato europeo quando manchino quelle dello Stato nazionale, il diritto di accesso ai documenti delle Istituzioni e degli organi dell’UE, il diritto di richiedere l’intervento del Mediatore europeo nel caso si verifichino casi di cattiva amministrazione e il diritto a presentare petizioni al Parlamento europeo. Questi ultimi atti sono reclami o osservazioni provenienti da individui o associazioni riguardanti l’applicazione del diritto comunitario o la richiesta che il PE si pronunci in merito ad una determinata questione. Perché una petizione possa tradursi in misure concrete, è necessario che sia vagliata dalla Commissione parlamentare creata per questo scopo (Commissione per le petizioni).
Vi è inoltre il diritto di ottenere una risposta nella lingua usata per formulare una specifica domanda alle Istituzioni europee.
I cittadini europei godono anche di un potere di iniziativa legislativa, ovviamente nei limiti della sfera della attribuzioni loro assegnate. In concreto, si tratta della possibilità per un milione di cittadini, che provengano da almeno sette Stati europei, di richiedere alla Commissione di proporre l’adozione di un atto legislativo che possa meglio disciplinare un qualsiasi settore di attività della Commissione stessa (ambiente, agricoltura, trasporti, salute pubblica).
Infine, non va dimenticato che la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, redatta a Nizza nel 2000 e riconosciuta a pieno titolo come documento giuridicamente vincolante dal Trattato di Lisbona, ha portato a una totale riorganizzazione della materia e ad un’elencazione esaustiva di tutte le categorie di diritti prima riconosciuti solo a livello nazionale e internazionale, ma non a livello europeo.
Come previsto sia in sede nazionale che internazionale, anche i diritti acquisiti grazie alla cittadinanza europea possono essere limitati. Più che di limitazione sarebbe però corretto parlare di bilanciamento, poiché è solo per garantire l’effettività di un diritto che un altro può venire parzialmente limitato. Le ipotesi principali di restrizione di un diritto sono tipicamente dettate da ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanità pubblica.
I Doveri
Per quanto concerne i doveri, è genericamente previsto che i cittadini siano soggetti agli obblighi contemplati nei Trattati, i quali fanno riferimento a quelli presenti nelle legislazioni nazionali. Tuttavia, questa è una norma molto astratta, fatta per richiamare a valori di solidarietà verso l’Unione e le sue Istituzioni, senza prevedere uno specifico elenco di doveri previsti per i cittadini europei. Questa anomalia può essere spiegata se si considera che, ad oggi, il diritto comunitario ricalca schemi del diritto internazionale classico, dove è prevista la sola riduzione dei poteri dell’ente statale nei confronti dell’individuo, piuttosto che un rapporto reciproco di diritti e doveri, come accade nei diritti interni degli Stati europei.
In definitiva, la ragione dell’imperfezione della cittadinanza europea risiede nel fatto che, allo stadio attuale dell’integrazione europea, l’Unione non si può configurare come un ente dotato delle stesse caratteristiche dello Stato nazionale. Tuttavia, all’interno dell’Ue è possibile rintracciare un nucleo originario di doveri “europei”, coincidenti con il rispetto della legge dello Stato di residenza, il rispetto della diversità delle culture europee, e la solidarietà.
Nella foto, il preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, un documento cui il Trattato di Lisbona ha dato valore vincolante e di pari rango con gli altri trattati europei
I DIRITTI FONDAMENTALI E LA CARTA EUROPEA DEI DIRITTI
I Trattati del 1957 non contenevano disposizioni sui diritti umani come quelle presentate dalle altre Istituzioni internazionali, come la Convenzione europea per i diritti dell’uomo (CEDU) del Consiglio d’Europa. Le Comunità europee, quindi, non si erano dotate di un unico e chiaro elenco di diritti riguardanti l’individuo in quanto cittadino, operatore economico, o lavoratore. Vi erano delle libertà tutelate, ma erano solo lo strumento per garantire il raggiungimento dello scopo dei Trattati, cioè il mercato interno. Fra l’altro, uno degli Stati fondatori, la Francia, non ratificò la CEDU fino al 1974.
Una delle ragioni per cui le prime istituzioni europee decisero di non sottoscrivere regole comuni nel campo dei diritti fondamentali era poi il timore che, dando alle Comunità la capacità di legiferare in questa parte della sovranità statale, avrebbe significato conferire loro un potere difficile poi da limitare. Questo atteggiamento era anche una conseguenza che rifletteva il comportamento dell’Istituzione incaricata di giudicare l’applicazione del diritto comunitario, la Corte di giustizia. Essa, infatti, nei primi anni di attività si era pronunciata affermando la propria incompetenza a giudicare di diritti umani e l’irrilevanza di quelli tutelati nelle Costituzioni degli Stati nazionali, dal momento che non facevano parte del corpus di norme comunitarie. Vi era stato, durante i primi anni di attività della Corte, un conflitto con le Corti Costituzionali di alcuni Paesi membri, in special modo quella tedesca e italiana, le quali rivendicavano la possibilità di effettuare un controllo sugli atti europei per vedere la compatibilità con i diritti umani da queste tutelati.
Negli anni Settanta, in linea con l’evoluzione del diritto comunitario, la Corte cambiò indirizzo.
In una sua pronuncia affermò che i diritti umani fondamentali fanno parte dei principi giuridici generali di cui la Corte garantisce il rispetto, chiarendo anche i riferimenti cui s’ispira, cioè le Costituzioni statali e la CEDU. Questo fu il primo riconoscimento dei diritti umani come parte del diritto comunitario. In questo modo, la Corte salvò il diritto europeo da interferenze da parte di altri organismi giurisdizionali e ampliò il quadro delle proprie competenze. Da questo procedimento risulta evidente il ruolo trainante svolto dalla Corte di giustizia, mentre le altre Istituzioni appaiono in secondo piano. Solo nel 1977 si assistette a una dichiarazione comune di Commissione e Consiglio nella quale venne sancito, nei rispettivi campi di azione, il rispetto dei diritti umani.
Nel Trattato di Maastricht sull’Unione europea troviamo la prima esplicita inclusione dei diritti fondamentali come principi generali del diritto comunitario, anche se non ne viene fornito un elenco esaustivo.
Fu solo con il Consiglio europeo del 1999 che si decise finalmente la creazione di uno specifico catalogo di diritti fondamentali, tramite l’incarico assegnato ad un apposita Convenzione, formata da 62 rappresentanti dei parlamenti nazionali, del Parlamento europeo, della Commissione e dei capi di Stato e di Governo.
Il testo redatto dalla Convenzione, conosciuto come Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è stato solennemente proclamato durante il Consiglio europeo di Nizza del 2000, pur non essendogli attribuito alcun valore giuridico vincolante. Era tuttavia uno documento fondamentale che rappresentava il primo strumento europeo autonomo in questo settore. I modelli cui si ispira sono le carte costituzionali degli Stati membri, della CEDU e della Carta sociale europea redatta nell’ambito del Consiglio d’Europa, nonché delle pronunce della Corte di giustizia. Nella Carta sono elencate tutte le tipologie di diritti, non solo quelli che la Corte tutelava per mezzo delle proprie sentenze. Comprende infatti i diritti civili e politici, quelli economici e sociali, ma anche diritti nuovi, come quelli sull’ambiente, sulla protezione dei dati personali, e sulla bioetica. Sono divisi in sei categorie: Dignità; Libertà; Uguaglianza; Solidarietà; Cittadinanza; Giustizia.
Per compensare parzialmente lo status non obbligatorio della Carta, nel Trattato scaturito da questo Consiglio europeo venne inserito un articolo che prevedeva un sistema di accertamento in caso di violazioni dei diritti da parte di uno Stato membro e le corrispettive sanzioni.
Si è dovuto aspettare la riforma del Trattato di Lisbona perché la tutela dei diritti umani vedesse affermato il suo carattere vincolante. Con il TFEU, infatti, viene riconosciuto alla Carta un valore giuridico pari a quello dei Trattati. Ciò nonostante, la Carta non ha valore vincolante per Polonia, Repubblica Ceca e Regno Unito, che hanno chiesto tramite un “opt-out” di non aderire alla Carta.
Il sistema di tutela dei diritti fondamentali che risulta dalla Carta appare come l’affermazione formale che raccoglie tutte le sentenze emesse dalla Corte negli anni passati, introducendo tuttavia con la Carta un elemento di riferimento fisso e quanto più possibile aggiornato con il progredire della materia.
Infine, nel Trattato di Lisbona si prevede la futura adesione dell’Unione alla CEDU, previo assenso da parte degli Stati europei. Su questo punto, però, la Corte di giustizia si è espressa negativamente per ben due volte: la prima, nel 1994, la Corte argomentò che l’UE mancava di basi legali per accedere a un documento giuridicamente vincolante in ambito di diritti umani; la seconda volta, nella celebre opinione C/2-13 del 2013, la Corte notò che, anche se il Trattato di Lisbona aveva previsto la possibilità per l’UE di accedere alla CEDU, non era possibile che gli Stati membri sottoponessero le norme di diritto dell’UE al giudizio di legittimità espresso da un’autorità diversa dalla Corte di giustizia dell’UE – nel caso della CEDU, la Corte europea per i diritti dell’uomo, che giudica la compatibilità delle norme varate dagli Stati aderenti con i requisiti della CEDU. Per attenuare la propria posizione, la Corte specificò comunque che le norme della CEDU rimanevano un punto di riferimento per la giurisprudenza della Corte, ma la sentenza non mancò di far discutere giuristi e politici e “congelò” il processo di negoziazione per l’adesione dell’UE alla CEDU.
IL MEDIATORE EUROPEO
Questa figura, introdotta dal Trattato di Maastricht, si occupa della tutela non giurisdizionale dei cittadini nei confronti dell’amministrazione. Ogni cittadino può rivolgersi al Mediatore europeo per denunciare casi di cattiva amministrazione da parte di Istituzioni e organi dell’Unione, eccettuata la Corte di giustizia e il Tribunale di primo grado.
Il Mediatore è eletto dal Parlamento per la durata di cinque anni con mandato rinnovabile; è un individuo che esercita la propria funzione in maniera indipendente, dal momento che sussiste incompatibilità con qualsiasi altro incarico.
Il Mediatore, di propria iniziativa o sulla base delle denunce presentategli direttamente dai cittadini o da un Parlamentare europeo, avvia le indagini. In caso di conclusione positiva, informa l’autorità interessata che, entro tre mesi, dovrà rispondere con un parere. Poi, alla fine della procedura, trasmette una propria relazione al Parlamento europeo e all’Istituzione coinvolta, tenendo anche informato sull’esito l’individuo che ha sporto la denuncia. In caso di esito negativo, il Mediatore può solo inviare un proprio parere motivato all’istituzione interessata la quale può decidere se conformarsi o meno; in questa seconda circostanza, egli sottoporrà una relazione per il Parlamento, il quale potrà intraprendere le azioni necessarie per giungere ad una soluzione della controversia.
Se al Mediatore arrivano denunce delle quali non possa occuparsi, esso farà in modo di indirizzare il denunciante verso l’organo competente per il caso in questione.
Per presentare una denuncia è necessario essersi prima rivolti all’Istituzione europea da cui ci si è sentiti danneggiati. Se questo metodo non funzionasse, si può decidere di denunciare il danno subìto al Mediatore, entro due anni dalla data in cui ci si è accorti del danno. Il denunciante deve indicare in un apposito modulo le proprie generalità e specificare l’Istituzione che intende denunciare. È anche possibile domandare al Mediatore che la denuncia rimanga riservata. Non può invece intervenire contro organi giuridici, enti degli Stati nazionali o privati cittadini.
Ogni anno il Mediatore europeo redige una relazione da presentare all’Assemblea, con i risultati e il resoconto della propria attività.
La figura del mediatore trae le proprie origini dalla funzione svolta dall’Ombudsman, presente nella tradizione giuridica scandinava, una carica che serviva ai comuni cittadini per rivalersi sui pubblici poteri in caso di cattiva amministrazione. Dal 2013, la carica di Mediatore è ricoperta dall’irlandese Emily O’Reilly.
LE ELEZIONI EUROPEE
Tra i diritti che derivano dall’essere cittadini europei, particolarmente importante è la possibilità di elettorato attivo e passivo, cioè la possibilità di votare o di essere eletti durante le elezioni europee. Il diritto si applica, significativamente, anche se un cittadino comunitario è residente in un Paese dell’UE diverso da quello di origine: egli può comunque partecipare alle elezioni locali (comunali) ed europee.
L’origine della possibilità di usufruire del diritto di elettorato attivo e passivo risiedeva nella volontà di realizzare fino in fondo la libertà di circolazione garantita dai Trattati, che avrebbe potuto essere ostacolata, senza l’attribuzione allo straniero di alcuni diritti politici fondamentali – tra cui, appunto, il diritto di voto. Inoltre, questa limitazione costituiva una discriminazione, fondata sulla nazionalità, all’integrazione dello straniero nel Paese ospite. Infine, la volontà di includere la tutela dei diritti umani nel novero delle competenze europee, sarebbe stata smentita senza il diritto di voto garantito a ogni cittadino di un Paese membro. Comunque, il fatto che i diritti elettorali siano stati introdotti solo grazie alla cittadinanza europea, a distanza di circa quarant’anni rispetto alla libera circolazione, testimonia la delicatezza della materia per gli Stati membri, e la visione strettamente economica del processo di integrazione europea fino ad anni recenti. L’evoluzione del diritto comunitario ha portato, alla fine, a includere questo diritto nella Carta europea dei diritti fondamentali nel capo “Cittadinanza”.
Sotto questo profilo, il possesso della cittadinanza europea consente agli europei residenti in un Paese diverso da quello nazionale il diritto di voto in due occasioni. Eleggere e essere eletti alle elezioni comunali dello Stato di residenza, nonché il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni del Parlamento europeo.
Prima dell’introduzione della cittadinanza europea con il Trattato di Maastricht, non era permesso che un cittadino europeo residente in un Paese straniero prendesse parte alla vita politica locale. L’integrazione europea si svolgeva unicamente in un’ottica economica, per cui lo straniero era solo un soggetto abilitato a usufruire di talune libertà economiche all’estero. In questo senso, vi furono nel passato alcuni tentativi di estendere limitati diritti politici tra Paesi appartenenti a una medesima area economico-culturale (Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo per esempio). Erano anche stati siglati accordi internazionali in questo settore, come l’apposita Convenzione del Consiglio d’Europa (1992) sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica locale, la quale prevedeva, oltre ad alcuni diritti come la libertà di espressione, la possibilità di partecipare alle elezioni comunali per i cittadini dei Paesi firmatari previa residenza di cinque anni in uno Stato straniero aderente.
La cittadinanza europea ha quindi introdotto un diritto di voto alle elezioni locali generalizzato per tutti i cittadini degli Stati membri, in qualunque Stato essi risiedano. Le modalità concrete dell’esercizio di voto sono poi state oggetto di una decisione specifica del Consiglio, su proposta della Commissione e previo parere favorevole del Parlamento. Le cause di incompatibilità e di ineleggibilità, che si applicano anche ai cittadini che hanno la stessa nazionalità dello Stato di residenza, sono demandate alle legislazioni nazionali.
L’ordinamento italiano ha dato applicazione alle norme del diritto comunitario tramite un apposito decreto legislativo. I cittadini stranieri che intendono partecipare alle elezioni comunali devono essere iscritti in specifiche “liste elettorali aggiunte”. Unica limitazione è l’esclusione dell’eleggibilità alle cariche di Sindaco e Vicesindaco.
Per quanto concerne le elezioni europee, la possibilità di essere eletti in uno Stato diverso da quello di cittadinanza favorisce l’idea che il PE sia l’istituzione rappresentativa di tutta la popolazione della comunità. Tuttavia, ancora prima delle norme introdotte a Maastricht, era concessa questa facoltà ai cittadini comunitari residenti in alcuni Paesi, ad esempio Italia e Regno Unito. Le riforme del 1992 sono state recepite dall’ordinamento italiano tramite una legge specifica, che regola il diritto di voto per i cittadini europei e consente ai cittadini italiani che risiedano in altri Stati membri la possibilità di votare all’estero o scegliere candidati italiani presso sezioni elettorali istituite nei consolati. L’unica regola imperativa è quella per cui nessun individuo può votare in due Paesi differenti nel corso della stessa tornata elettorale.
Le ultime elezioni europee si sono svolte nel maggio 2014 per eleggere i 73 deputati che spettano all’Italia, secondo le indicazioni del Trattato di Lisbona. Il territorio italiano è diviso in cinque circoscrizioni (nord-occidentale; nord-orientale; centrale; meridionale; insulare), ai fini di ripartire i seggi da assegnare ai partiti e ai loro candidati. Le incompatibilità riguardano il caso che un candidato svolga già funzioni direttive nelle istituzioni europee o a livello nazionale (centrale, regionale, locale). Le prossime elezioni europee sono previste nel 2014.
LE LIBERTÀ FONDAMENTALI
La libera circolazione dei lavoratori
Quanto detto riguardo alla libertà di circolazione trova conferma e estensione del proprio ambito di applicazione nella circolazione dei lavoratori.
I Trattati delle Comunità europee del 1957 prevedevano la graduale soppressione di tutti gli ostacoli alla circolazione dei lavoratori; I Trattati, perciò, vietavano la discriminazione in ambito lavorativo fondata sulla nazionalità. Si capisce, tuttavia, come questo fosse un diritto riservato agli individui in quanto lavoratori, non invece un diritto umano valido per i cittadini europei in quanto tali.
L’evoluzione del diritto comunitario, avvenuta tramite le sentenze della Corte e gli accordi tra gli Stati membri, ha modificato il contenuto di tale norma, spostando l’accento dai trasferimenti lavorativi a qualunque spostamento voglia compiere un cittadino europeo. Nel Trattato di Maastricht e nelle successive direttive delle Istituzioni europee, viene messo in rilievo come la cittadinanza dell’Unione sia lo status fondamentale dei cittadini degli Stati europei, motivo per il quale la qualifica di lavoratore non è altro che una sottocategoria del loro essere cittadini europei. I cittadini hanno perciò il diritto di viaggiare nei 28 Paesi dell'UE e di stabilirsi in uno qualsiasi di essi, senza venire discriminati per questo. Allo stesso modo, caduto il requisito del lavoro, le norme europee in tema di libera circolazione si applicano anche ai familiari del cittadino che intende trasferirsi.
Essendo che il requisito richiesto è la cittadinanza europea, gli Stati membri devono solo imporre il possesso di un documento valido per ammettere un cittadino europeo nel loro territorio. Tuttavia, il diritto di soggiorno e circolazione incontra dei limiti anche nella legislazione comunitaria. È previsto che i cittadini europei, qualunque sia la loro qualifica, possano risiedere nel territorio di uno Stato dell’UE fino a tre mesi senza alcuna restrizione. Trascorso questo periodo di tempo, è necessario che il cittadino comunitario possa dimostrare di possedere risorse economiche sufficienti per poter vivere e un’assicurazione sanitaria perché il soggiorno possa protrarsi. Inoltre, è possibile acquisire la residenza permanente dopo un soggiorno di cinque anni senza interruzioni.
La libertà di circolazione e di soggiorno è garantita ai lavoratori subordinati che abbiano un regolare contratto di lavoro, con questo termine si intende persone che svolgano la propria mansione per conto di un’altra persona e sotto la sua direzione.
Sono tuttavia previste delle clausole di salvaguardia applicate dagli Stati, che consistono nel limitare il diritto di circolazione e soggiorno per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e salute pubblica.
Il diritto di stabilimento
Con questo termine s’intende il diritto garantito a ogni cittadino di svolgere la propria attività indipendente in modo continuativo all’interno di uno Stato membro senza restrizioni. Si differenzia dallo status di lavoratore subordinato data la sua indipendenza economica rispetto a quest’ultimo.
Il diritto di stabilimento può riguardare lo spostamento del centro principale dell’attività del cittadino europeo, ma anche la creazione di filiali, succursali e agenzie.
Il diritto di stabilimento fa in modo che la creazione di attività da parte di individui o imprese possa essere attuata senza barriere all’ingresso da parte di uno Stato membro. È anche prevista, come per i lavoratori subordinati, la regola del trattamento nazionale, vale a dire l’assimilazione dello straniero comunitario al cittadino nazionale. Sempre sulla stessa lunghezza d’onda sono vietate le discriminazioni dirette, quelle indirette, e anche quelle materiali. Con questo termine ci si riferisce a situazioni che equiparano cittadini nazionali e comunitari in situazioni in cui questi ultimi non possono soddisfare le stesse condizioni dei primi.
La prestazione di servizi
La prestazione di servizi riguarda un servizio retribuito a carattere indipendente, esercitato in maniera temporanea e occasionale, in ciò differenziandosi tanto dal lavoro subordinato quanto dal diritto di stabilimento.
Concretamente la prestazione dei servizi può avvenire in quattro modi. Vi può essere il trasferimento del prestatore del servizio nello Stato in cui eserciterà (come nel caso del professore chiamato a fare lezione in un ateneo straniero). Al contrario, può essere il destinatario a recarsi nello Stato dove ha sede il prestatore (il paziente che va a farsi curare all’estero). Può darsi il caso che sia solamente il servizio a spostarsi (come i servizi bancari, finanziari o postali). Infine, sia il prestatore che il destinatario possono esercitare in uno Stato differente dal proprio (come le guide che accompagnano turisti dello stesso Stato all’estero).
Come per le altre due libertà personali, anche per i servizi è tutelato l’esercizio delle prestazioni alle stesse condizioni imposte dallo Stato ospitante ai propri cittadini. Sono vietate le discriminazioni dirette, quelle indirette e quelle materiali.
Anche in questo caso possono essere introdotte delle limitazioni alla libera prestazione dei servizi per motivi di ordine pubblico, salute pubblica, ma anche tutela dei consumatori, protezione dei lavoratori, lotta contro la criminalità e la frode.
Nella foto, un segnale di confine in Lituania, Stato membro dell'UE che è entrato nello spazio di Schengen nel 2007
L’IMMIGRAZIONE
I trattati che istituivano le Comunità europee non contenevano alcuna disciplina in materia di immigrazione. Tuttavia è chiaro che le libertà fondamentali di cui si è discusso garantivano la possibilità di prestare un servizio in un Paese terzo rispetto alla CEE, così come la possibilità per i cittadini non europei di usufruire di tali servizi. Ai migranti venivano perciò applicate le norme del diritto interno di ciascuno Stato membro.
Nel corso degli anni Settanta ci si rese conto che i flussi migratori provenivano per la maggior parte da Paesi esterni all’Unione e che i problemi che gli Stati europei dovevano affrontare erano simili. Le Istituzioni europee hanno tuttavia riscontrato gravi difficoltà a disciplinare tale materia. Gli Stati membri avevano posizioni molto distanti gli uni dagli altri, basti pensare ai differenti problemi che dovevano affrontare nei confronti dell’immigrazione gli Stati del Nord Europa e gli Stati meridionali del continente.
Solo con la prospettiva della creazione di un mercato interno contenuta nell’Atto unico europeo, ritornò in auge il problema relativo alle migrazioni. Infatti, l’abolizione delle frontiere interne avrebbe dovuto per forza di cose essere compensata da un rafforzamento di quelle esterne e dalla cooperazione degli Stati nel settore dell’emigrazione. Tuttavia, data la varietà delle posizioni dei partner europei e degli interessi in gioco, solo un gruppo di Paesi proseguì su questa strada, ma al di fuori del quadro comunitario. Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo stipularono gli Accordi di Schengen nel 1985 e la seguente Convenzione di applicazione nel 1990. Successivamente hanno aderito Italia (1993), Grecia, Austria e tutti gli altri Paesi europei con l’eccezione del Regno Unito, Irlanda, Bulgaria, Cipro e Romania. Schengen è stato firmato anche con Stati non facenti parte dell’Ue, come Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein.
I principi sanciti negli accordi stabiliscono che i cittadini degli Stati aderenti possano liberamente attraversare i confini di quei Paesi senza controlli da parte delle autorità. Al contrario, per i cittadini di Paesi terzi, è necessario un visto per entrare nell’area Schengen. È inoltre sancita la collaborazione delle forze di polizia provenienti dai Paesi firmatari e un coordinamento speciale per arginare fenomeni illegali come il traffico di armi e l’immigrazione clandestina. Infine, viene creato un sistema informatico denominato SIS (Sistema d’Informazione Schengen, ora sostituito dal SIS II), per facilitare la comunicazione tra le varie forze dell’ordine riguardo persone o oggetti sospetti.
Una rilevante innovazione in questo campo fu quella apportata dal Trattato di Maastricht, che istituì il terzo pilastro, chiamato Giustizia e Affari Interni (GAI), all’interno del quale venne attribuita all’Unione la competenza in tema di immigrazione, prescrivendo forme di cooperazione tra gli Stati membri per quanto riguarda le condizioni di entrata, circolazione e soggiorno dei cittadini di Paesi terzi, nonché la lotta contro l’immigrazione clandestina. In questo settore era previsto che il Consiglio, assistito da un organo specifico, il Comitato di coordinamento, potesse adottare all’unanimità posizioni comuni e progetti di convenzioni.
Una rivoluzione di ben maggiore portata fu quella introdotta con il Trattato di Amsterdam, il quale “comunitarizzava”, cioè assegnava in via esclusiva alla Comunità europea, la politica sull’immigrazione. Venne così attribuita al Consiglio la facoltà di adottare in questo settore misure su entrata, circolazione e soggiorno dei cittadini di Paesi terzi, e su immigrazione e rimpatrio delle persone in soggiorno irregolare.
Inoltre, questo Trattato portò all’integrazione nel quadro giuridico europeo gli Accordi di Schengen, tramite l’istituzione di una cooperazione rafforzata tra i Paesi che vi aderivano. Fu perciò firmato un “Protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea”, allegato al Trattato. Il Consiglio assunse le funzioni del Comitato esecutivo Schengen, mentre il Segretariato venne assorbito dal Segretariato del Consiglio. Regno Unito e Irlanda non sono attualmente vincolati al sistema creato da Schengen, ma possono in parte prendervi parte.
Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, nulla è cambiato per gli Stati che partecipano alla cooperazione rafforzata, salvo la possibilità per i Paesi non aderenti di decidere caso per caso se partecipare o meno ad alcuni aspetti di questa politica.
In definitiva, si può concludere che le competenze europee e statali in tema di immigrazione siano parallele, nel senso che sono possibili misure nazionali, purché compatibili con i trattati in vigore e con gli accordi nazionali. Ciò vuol dire che le misure statali dovranno essere conciliabili con gli obiettivi e le finalità dell’Unione, e con il principio di leale collaborazione tra governi e Istituzioni europee.
LA PROTEZIONE DIPLOMATICA
Protezione consolare significa normalmente l’intervento dello Stato nazionale per assistere un proprio cittadino in difficoltà che si trova in un Paese estero. Con l’introduzione della Cittadinanza europea viene a crearsi un’ulteriore rete di protezione per i cittadini europei. La possibilità di essere assistito da parte di un'ambasciata o di un consolato di qualsiasi altro Paese dell'UE, nel caso non ci siano rappresentanze dello Stato nazionale nel territorio di uno Stato terzo. Ancora più importante, questo soccorso deve essere fornito alle stesse condizioni garantite per i cittadini nazionali.
Questa norma non intende dare alla Comunità in quanto tale un obbligo di agire in protezione nei confronti degli Stati terzi, ma configurare una tutela vicendevole per i cittadini europei, offerta dalle rappresentanze di ogni Stato membro dell’UE laddove non sia presente un corrispondente ufficio nazionale. La protezione diplomatica da parte di autorità diverse da quelle nazionali viene perciò ad essere un diritto del cittadino dell’Unione, rinforzato dal fatto che questa pretesa è presente anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nel capitolo dedicato alla cittadinanza.
Le modalità concrete con le quali verrà assicurata tale protezione sono demandate a specifici accordi internazionali con i Paesi terzi interessati e accordi tra gli Stati membri dell’UE. Quanto a questi ultimi, la disciplina in questo settore è quella risultante dalla decisione approvata dal Consiglio nel 1995, per cui l’assistenza di uno Stato membro viene richiesta in situazioni quali la perdita del passaporto, incidente o malattia grave, crimini violenti, arresto, soccorso e rimpatrio a seguito di emergenze, decesso.
La tutela del cittadino europeo è assicurata anche dal Documento di Viaggio Provvisorio (DVP). Rilasciato dalle autorità consolari di uno Stato membro ad un cittadino europeo di un'altra nazione, nel caso in cui i documenti di quest’ultimo siano stati persi, rubati o distrutti. Il DVP consente il viaggio della persona verso lo Stato membro di cui è cittadino o verso il Paese di residenza.
Infine, nel 2006 la Commissione ha adottato un Libro Verde sulla protezione diplomatica e consolare, che affronta una serie di tematiche quali la creazione di uffici comuni per diminuire i costi delle rappresentanze degli Stati membri, l’estensione della protezione consolare ai familiari dei cittadini europei di Paesi terzi, la formazione di funzionari delle Istituzioni comunitarie e degli Stati membri.
PROSSIME ADESIONI: QUALI DIRITTI?
Il processo d’integrazione europea non si è mai arrestato. Dalla nascita della CEE con le prime domande di adesione di Regno Unito e Irlanda, fino all’ingresso della Croazia nel 2013, i Paesi candidati a entrare nell’UE sono stati numerosi.
Per entrare nell’Unione bisogna rispettare determinati criteri. In primo luogo essere uno Stato europeo, motivo per il quale la candidatura presentata dal Marocco è stata respinta. Inoltre, bisogna rispettare i principi democratici di libertà, tutela dei diritti umani e Stato di diritto, cioè garantire la supremazia della legge.
Infine, bisogna rispettare quella serie di standard economici e politici conosciuti come i criteri di Copenaghen. Questi stabiliscono i parametri che uno Stato deve soddisfare per l’adesione all’UE, quali:
- La presenza di Istituzioni stabili che assicurino la democrazia.
- L’esistenza di un’economia di mercato che garantisca la concorrenza.
- L’adesione all’acquis comunitario, cioè il rispetto dei diritti e degli obblighi della legislazione europea esistente.
Attualmente i Paesi candidati all’adesione all’UE sono Turchia, la Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e Albania, che ha presentato la propria domanda nel 2009 e ha ottenuto lo status di candidato nel 2014.
Per aiutare e cooperare con i Paesi candidati, e permettere a breve l’estensione dei diritti garantiti nell’Unione anche ai cittadini dei Paesi in via di adesione, le istituzioni comunitarie hanno creato un programma specifico, Lo Strumento di Assistenza Preadesione (IAP).
Lo IAP è lo strumento finanziario del processo di preadesione, e concede prestiti e finanziamenti in base alle esigenze, e ai progressi compiuti dagli Stati candidati, secondo le valutazioni fatte dalla Commissione. I Paesi beneficiari sono suddivisi in due categorie, Stati candidati effettivi, cioè quelli che hanno già iniziato a recepire la legislazione europea adattando a questa la propria,; Stati candidati potenziali, vale a dire che non soddisfano ancora pienamente i requisiti di adeguamento alle norme comunitarie.
Lo IAP è stato pensato per rinforzare le istituzioni, la democrazia, i diritti di genere e le libertà fondamentali, nonché lo sviluppo economico, le riforme sociali e la ricostruzione industriale.
Si compone di cinque sottoprogrammi ognuno dei quali ha delle componenti progettate per il singolo Stato.
I primi due sottoprogrammi riguardano tutti i Paesi beneficiari. Sono l’Assistenza alla transizione e al rafforzamento delle istituzioni, mirante al miglioramento di queste ultime e la Cooperazione transfrontaliera, il cui obiettivo è patrocinare cooperazioni transnazionali e interregionali, anche tra i Paesi beneficiari.
Gli altri tre sono rivolti unicamente ai Paesi candidati effettivi e comprendono lo Sviluppo regionale, per prepararsi alla politica di coesione dell’Unione, lo Sviluppo delle risorse umane, per preparare il Paese alle politiche sociali comunitarie e lo Sviluppo rurale, che mira a preparare l’ingresso nella PAC.
Responsabile di questo progetto è la Commissione, assistita da un apposito comitato, il Comitato IAP, che deve garantire il coordinamento e la coerenza del programma, e dalla Corte dei conti, che verifica la gestione dei prestiti, i contratti ed eventualmente gli appaltatori.
Un discorso a parte merita la domanda presentata nel lontano 1987 dalla Turchia, la cui adesione appare politicamente assai complicata. Lo strumento dell’UE nelle relazioni bilaterali con questa nazione è il “Partenariato di preadesione”, in vigore dal 2001, due anni dopo il riconoscimento alla Turchia dello status di Paese candidato. I negoziati di adesione sono incominciati nel 2005. Il partenariato prevede obiettivi di medio termine (3-4 anni) e obiettivi a breve termine (1-2 anni), suddivisi in criteri economici, dialogo politico e capacità di assumere gli obblighi derivanti dall’adesione, cioè l’applicazione e il rispetto dell’acquis comunitario. Il settore dove si concentrano i problemi più spinosi da parte dell’UE riguarda la situazione politica all’interno della Turchia: le aspettative dell’UE si concentrano sul miglioramento del controllo civile sulle forze di sicurezza, la lotta alla corruzione, la tutela dei diritti umani, in special modo quelli delle minoranze (i curdi soprattutto), nonché la questione dell’isola di Cipro, la cui parte settentrionale si è costituita nel 1974 in Repubblica Turca di Cipro del Nord, riconosciuta solamente da Ankara.
La Turchia, dal 2016, è stato un partner fondamentale nell’esecuzione della risposta europea ai flussi migratori in arrivo dal Medio Oriente. Un accordo tra Paesi dell’UE e governo turco siglato nel marzo 2016, dopo alcuni incontri e dichiarazioni preliminari l’anno precedente, ha stabilito un meccanismo di rimpatrio dei migranti dal territorio dell’UE alla Turchia. L’accordo ha effettivamente posto un freno alle pericolose traversate del mare Egeo usate da molti migranti per raggiungere l’Europa, ma ha scatenato forti critiche da parte di organizzazioni non governative e attivisti per i diritti umani, che denunciano il fatto che Ankara non abbia mai ratificato il Protocollo alla Convenzione di Ginevra sui Rifugiati, considerando quindi i migranti non di origine europea non tutelati dalle garanzie della Convenzione.